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Piano Particolareggiato del Centro Storico di Vicenza

Quello che si va cercando in urbanistica, da ormai diversi decenni, consiste nel disciplinare una serie di rapporti a geometria variabile che da una parte promuovano il pubblico come ente mediano dell’intera catena di governo del territorio, mentre dall’altra valorizzino il privato, ormai indiscusso motore delle dinamiche economiche.

Piani particolareggiati del centro storico - inedite soluzioni per la città che cambia I piani particolareggiati Quello che si va cercando in urbanistica, da ormai diversi decenni, consiste nel disciplinare una serie di rapporti a geometria variabile che da una parte promuovano il pubblico come ente mediano dell’intera catena di governo del territorio, mentre dall’altra valorizzino il privato, ormai indiscusso motore delle dinamiche economiche. In questo contesto coltivare l’ambizione di un’urbanistica esclusivamente TOP-DOWN risulta non solo anacronistico, ma anche logicamente errato - in quanto per forza di cose controproducente per i volumi di spesa pubblica risparmiabile attraverso forme di collaborazione più o meno intense con il privato. D’altra parte, insistere eccessivamente su un’ottica di pianificazione contratta, snatura il ruolo della pubblica amministrazione e rende l’iniziativa del privato difficilmente inquadrabile. Se in economia permane il dubbio, sempre meno popolare in realtà, che l’iniziativa del privato possa trovare in un certo qual modo un punto di equilibrio, per la materia urbanistica nulla questio con riguardo alla necessità di una necessaria regolamentazione da parte di autorità sovraordinate. L’iniziativa privata non può cioè porsi sullo stesso livello dell’interesse pubblico in quanto il sacrificio in termini di diritti che nascerebbe da tale situazione condurrebbe ad una compressione esagerata dei diritti della collettività in favore dell’iniziativa economica privata. Anche in questo senso corre in aiuto la geografia costituzionale che pone la tutela del paesaggio e della bellezza all’art. 9, tra i principi fondamentali, mentre quello di libera iniziativa economica all’art. 41. L’assemblea costituente operò infatti la costruzione di un’impalcatura di diritti e doveri fortemente incentrata sulla salvaguardia della persona come singolo e nelle sue formazioni sociali. Ebbene, non si può quindi produrre un sistema in netto contrasto con la costituzione andando a delineare, come invece certa dialettica politica riterrebbe opportuno, un sistema urbanistico polverizzato in innumerevoli contratti. Tale prospettiva infatti, oltre che contraria ai principi costituzionali appena esaminati, denoterebbe alla lunga degli evidenti problemi con riguardo al tema dell’uguaglianza e della disparità di trattamento che chiaramente non dobbiamo e non possiamo permetterci.

Abbandonate quindi le prospettive di un’urbanistica rigida e di un’altra “contrattata” si pone il problema di capire quale sia la strategia migliore da tenere in considerazione. È proprio in questa prospettiva che negli ultimi quarant’anni, dalla legge 457/1978 sui Piani di Recupero, si è sviluppato il fenomeno dell’urbanistica consensuale; tema quindi “antico”, ma ancora inedito. Se osserviamo infatti il normale incedere della pianificazione territoriale possiamo notare che la stragrande maggioranza degli interventi degli ultimi 50 anni, ad eccezione di alcuni negli ultimi due decenni, sono i prodotti di più o meno articolati piani di lottizzazione, diventati negli anni ’60 obbligatori per certe tipologie di operazioni immobiliari comportanti l’aggravio sulle strutture urbanistiche esistenti. Per chiarezza riportiamo il seguente schema che rappresenta quanto appena detto:

  • - Piano regolatore --- Piano di lottizzazione --- costruzione

  • - Programma di fabbricazione --- Piano di lottizzazione --- costruzione Ricordiamo in realtà che il legislatore della L.U. del 1150 del ’42 aveva invece pensato ad un altro schema che giova qui essere riportato:

- Piano Regolatore --- Piano Particolareggiato d’esecuzione --- esproprio --- appalto --- costruzione - Piano Regolatore --- Piano Particolareggiato d’esecuzione --- Piano di comparto (componente di livello inferiore del P.P.) --- licenza edilizia diretta ---- costruzione Non serve aver compiuto studi giuridici per comprendere che la soluzione adottata comportò una netta diminuzione delle ampasse burocratiche a favore di un sistema più snello, favorendo lo sviluppo del comparto-immobiliare, ma per forza di cosa producendo delle inevitabili situazioni di degrado, consumo di suolo e sfruttamento ambientale delle quali oggi si notano tutti gli aspetti più critici. Tale deviazione rispetto al percorso previsto nella L.U. del ’42 comportò che i comuni, pur in assenza del piano particolareggiato di esecuzione, poterono comunque procedere, dopo l’espletamento di una serie di mere formalità burocratiche, alla lottizzazione1. Legge 1150, Art. 28 comma 2: “ Nei Comuni forniti di programma di fabbricazione ed in quelli dotati di piano regolatore generale fino a quando non sia stato approvato il piano particolareggiato di esecuzione, la lottizzazione di terreno a scopo edilizio può essere autorizzata dal Comune previo nulla osta del provveditore regionale alle opere pubbliche, sentita la Sezione urbanistica regionale, nonché la competente Soprintendenza”

Ad “onor del vero” tale problematicità si mostrò con maggior rilevanza in tutti quei comuni di cintura che non adottarono mai un piano regolatore e che “governarono” il proprio territorio mediante il Programma di Fabbricazione. Tale strumento, per forza di cose meno dettagliato e al contempo completo dei PRG, consentì di operare quasi esclusivamente attraverso lottizzazioni. Fu la chiara vittoria di un modus operandi liberista e come si diceva prima, in urbanistica tale impostazione può pagare nel breve, ma senza adeguati correttivi crea problemi immani nel medio- lungo periodo. Il piano particolareggiato rimase quindi una chimera nell’operatività urbanistica nazionale. La fase attuativa della pianificazione comunale fu cioè affidata nella pratica alla lottizzazione e la stragrande maggioranza dei comuni italiani non si dotarono mai di un piano particolareggiato nonostante il legislatore del ’42 fosse stato molto esplicito nel delineare il suo ambito di operatività2. Vale quindi la pena chiedersi il perché. La risposta sta chiaramente in quanto scritto sopra: semplificare. La prassi promosse cioè delle azioni atte ad eliminare gli elementi complessi del sistema e la vittima sacrificale fu il Piano Particolareggiato, nelle sue sfaccettature ordinatrici ed attuative. Alla luce di quanto detto s’intuisce come Vicenza rappresentò un unicum in ambito urbanistico dal momento che fu una delle poche città di medio-grandi dimensioni in Italia a dotarsi di una Piano Particolareggiato del centro storico. Si voglia per altro precisare che Secondo giurisprudenza consolidata “il piano attuativo è inutile (per impossibilità dell’oggetto o per sopravvenuta carenza della causa) laddove la zona interessata dall’iniziativa edilizia presenti un livello di urbanizzazione tale da non richiedere (perché già realizzate dai soggetti che hanno edificato) e/o da non consentire (per l’esiguità della superficie dei lotti ancora inedificati) la realizzazione di opere di urbanizzazione, e ciò in quanto i piani attuativi del Piano Regolatore Generale hanno lo scopo di far sì che all’iniziativa edilizia dei privati si accompagni la realizzazione delle opere di urbanizzazione”. Innumerevoli furono quindi i casi in cui per i centri non si produsse alcun piano perché, a causa di un sistema urbano già consolidato, non vi era alcuna necessità di procedere con lo strumento urbanistico in esame.

Risolta quindi questa breve parentesi, utile a comprendere l’ambito di operatività dei Piani Particolareggiati passiamo quindi ad analizzare quello del Centro Storico di Vicenza, conosciuto anche come Piano Coppa.

Il centro storico negli anni ’60. In nessuna nazione come in Italia i centri storici rappresentano il cuore delle città. A differenza di quanto previsto nei modelli di città di altri paesi, tipicamente di matrice anglosassone, le principali attività del settore terziario si concertano infatti tra le antiche mura cittadine. Tale effetto centripeto porta con sé degli evidenti vantaggi, ma anche la necessità di produrre un governo del territorio capace di capire il presente, o per quanto possibile, immaginare il futuro. Certo, non è opportuno ritenere che il legislatore o l’amministratore siano dei druidi con la “sfera di cristallo”, in grado cioè di prevedere il futuro; si palesa allora la necessità di creare un sistema di pianificazione fluido, che si adatti cioè alle epoche senza la necessità di ricorrere all’estemporaneo - spesso decontestualizzato - strumento della variante urbanistica. Il Piano particolareggiato del Centro Storico di Vicenza, o Piano Coppa, dal cognome del suo estensore, rappresenta a ben vedere un tentativo di riconciliare la pietra con i suoi cittadini, offrendo agli abitanti la prospettiva di un centro storico ospitale, ricco di luoghi di vita e non mero scrigno di bellezze. Il tema che il piano va affrontando è infatti quello dello spopolamento dei centri storici che noi pensiamo oggi essere un fenomeno attualissimo e che invece rappresenta una dinamica che viene da lontano, figlia di una serie di elementi che per forza di cose non possiamo approfondire in questa sede. A sostegno di quanto detto la relazione allegata al Piano Particolareggiato, pag. 49 riporta quanto segue: “ Riferendoci al IX censimento del 1951, i 58.394 abitanti del capoluogo erano distribuiti in rapporto l 27.908 per il Centro Storico e a 30.486 nelle zone limitrofe; valori che alla data del 1961 si portano rispettivamente a 24.423 e a 51.019 con una diminuzione del 12,5% per il primo, e con un incremento del 40% per il secondo; il decremento del centro storico alla data del 1961 risulta però più sensibile con 21.602 unità effettive, se non si considerano le comunità civili e religiose, 3 pertanto la percentuale scende del valore di 22,5% tra le due date considerate nel decennio”.

La mappa qui sopra mostra le tendenze demografiche che già negli anni ’60 caratterizzavano i centri storici. L’aumento esponenziale di popolazione nei quartieri non è quindi “figlio” solo del trasferimento di grandi fette della popolazione verso la periferia ma è anche il “prodotto” di una demografia che cambia e di centro storici abitati da una popolazione sempre più anziana. Tale affermazione è supportata da ulteriori statistiche: “Il gruppo dei giovani, che dovrebbero rappresentare il rincalzo alle future classi lavoratori, è assai inferiore al valore medio nazionale del 34,9%, così come è assai più elevato il gruppo anziano rispetto al valore del 12%...indubbiamente la popolazione distribuita nelle restati zone del capoluogo e del territorio comunale corregge i rapporti citati...”. Un centro anziano quindi, prevalentemente votato alle funzioni direzionali come vedremo in seguito e dove cambia il modo di abitare: “L’allontanamento residenziale e l’eccesso direzionale delle funzioni ammnistrative provinciali hanno contribuito ad intensificare la vita diurna rendendo deserta quella notturne e Vicenza nelle ore serali nella Piazza dei signori e Matteotti e nelle contra’ parallele al Corso sembra essere città in attesa dei propri abitanti.”6 Ed ecco dunque il disegno di Coppa: “... deve sostituire un indirizzo di chiara programmazione delle maggiori attività direzionali portate all’esterno e di recupero delle principali attività con i relativi abitanti entro il perimento del centro storico, contro tutte le tendenza registrate nelle analisi della popolazione, creare le premesse per il ritorno ad un insediamento accentrato attorno ai valori tradizionali delle 27-30.000 unità.”

La sfida di Coppa è chiara quindi. Costruire un centro storico a misura d’uomo per consentire allo stesso di vivere e di crescere come ogni altra area della città. Se per quanto attiene gli aspetti di natura demografica le dinamiche rimangono grosso modo le stesse certo non si può dire che per quanto attiene gli aspetti economici la situazione non sia cambiata. Il centro storico nel 1963 occupava 11.585 lavoratori distribuiti nei settori secondario e terziario. Il fatto che però deve fare impressionare di più è la presenza nel centro di grandi attività produttive, come le Aziende Industriali Municipalizzate, ma anche di una grande varietà d’industrie, molte delle volte impegnate nel settore della manifattura e alcune delle quali occupanti centinaia di addetti ciascuna. Anche in questo caso la dialettica sul tema porta oggi a ritenere che le imprese presenti nei centri storici siano di fatto uscite dai centri per trasferirsi nella nuova area industriale a Sud-Ovest della città. Certo, tale riflessione è in parte vera, ma necessita però di alcuni correttivi. Se infatti alcune grandi aziende della cintura del centro storico trovarono le sedi dei propri locali produttivi altrove: Zambon, Valbruna, Beltrame, altre semplicemente chiusero, come la Lanerossi che occupava nella zona che oggi separa centro storico da zona industriale oltre 2000 persone e della quale oggi si può ancora vedere nei quartieri dei ferrovieri il gigantesco scheletro. Ma c’è di più, all’interno delle mura antiche moltissime attività manifatturiere, con migliaia di addetti sparirono non lasciando alcuna traccia nella storiografia della città se non nelle mappe di zonizzazione del Piano in studio. Molte altre invece furono trasferite. Il centro storico studiato da Coppa per la redazione del Piano è quindi ancora abitatissimo, 24.000 abitanti contro i 12.441 dell’ultimo censimento del 201110, ed economicamente estremamente attivo ed eterogeneo. Quello che però colpisce maggiormente è la completezza, nonché la complessità della disamina che contraddistingue la relazione. Nessun aspetto fu allora lasciato al caso e ogni elemento, approfondito secondo diverse prospettive, mostra una città profondamente diversa dall’attuale, ma con in grembo tutti i problemi che viviamo amplificati oggi.

Un tema semplice per due problemi fondamentali Nel 1964 i parcheggi a Vicenza erano la metà del fabbisogno richiesto per il centro storico. Le aree di sosta, sviluppate come oggi a macchia di leopardo lungo le strade, costituivano una notevole fonte di disturbo viabilistico e visivo. Pareva già chiara allora la necessità di procedere alla realizzazione di parcheggi multipiano in diverse aree della città, nonché parcheggi scambiatori esterni al nucleo del centro storico che potessero sopperire alle mancanze croniche, ma fisiologiche, delle aree centrali. Il piano prevedeva infatti per alcune aree, come l’ex. Azienda Industriale Municipalizzata, dei parcheggi multipiano, di fatto mai realizzati se non nell’unico caso del parcheggio Verdi che Coppa vedeva sovrastato da un edificio congressi e che oggi si presenta come un’immensa ed inutilizzata zona verde del Campo Marzio. Fu l’eccessiva lungimiranza di Coppa o errori politici nella fase di attuazione del piano che portarono alla difformità dell’attuale rispetto al pianificato? La risposta a questa domanda comporta una valutazione di tipo politico che non spetta chiaramente al giurista; ma volendo comunque oggettivare le situazioni, pur non traendo da queste valutazioni di natura squisitamente politica delle conclusioni, pare utile sovrapporre i progetti di Coppa con l’attuale tracciato urbano, mettendo poi a sistema le evidenze progettuali con quelle dell’assetto urbano attuale. Il risultato è sorprendete: intere aree della città, pensate in un centro modo per rispondere a particolari esigenze, sono completamente diverse da quanto preventivato.

Se guardiamo alle immagini qui sopra possiamo notare la radicale differenza tra il tracciato progettato dall’arch. Coppa e l’attuale area del parcheggio Fogazzaro. Le differenze sono importanti e comportano una completa deviazione rispetto a quanto preventivamente stabilito. L’area, molto vasta e rientrate all’interno della tavola A’- 111, doveva essere dedicata nella parte nord- ovest a un centro di negozi, mentre nella zona a sud-est ad un parcheggio multipiano. Attualmente la zona consiste invece in una grande spianata di catrame dove più o meno alla rinfusa sono collocati parcheggi a raso. L’attuale assetto deriva dalla “delimitazione ambito PUA Parcheggio Carmini” del Consiglio Comunale del comune di Vicenza del giorno 9.11.2011. Come ben noto, l’area del Centro Storico, soggiace come RSA1 al PPCS qui in esame. La domanda che sorge quindi spontanea è - stante l’area in oggetto all’interno del Centro Storico e ricadendo all’interno delle disposizioni del PPCS, come è stato possibile procedere in difformità senza alcuna esplicita variante? La risposta va cercata nel testo della delibera e in particolare nelle dichiarazioni dell’allora assessore all’urbanistica Francesca Lazzari: “...prescrizioni e previsioni diverse ma conformi al PRG sono consentite come varianti al PPCS vigente o con piani di recupero. Essendo il PPCS decaduto, con il presente provvedimento di delimitazione...” La delibera in oggetto è quindi una variante al PPCS e opera in osservanza delle prescrizioni fissate nel PRG. Altra domanda quindi - quali sono le prescrizioni del PRG richiamate, che legittimano la delibera modificativa? Dal punto di vista della legittimità del provvedimento non vi è dubbio: la delibera è una variante del PPCS e come tale opera in osservanza delle prescrizioni contenute nell’art. 4 e 35 delle norme tecniche di attuazione del PRGC. La riflessione non deve quindi muoversi intorno a questi, che sono a ben vedere meri aspetti burocratici, ma deve piuttosto essere evidenziato è rappresentato dal fatto che la modificazione del PPCS tramite PUA o Piano di Recupero trova come unica motivazione la risalente questione del fabbisogno di parcheggi richiamato nella stessa delibera: “ L’approvato piano di assetto del territorio (P.A.T. ) delinea, tra gli interventi urbanistici previsti, la necessità di confermare e potenziare, oltre ai parcheggi scambiatori finalizzati offrire una risposta alle soste pendolari ed alle soste di lunga durata, i parcheggi per la sosta breve o media durata nell’ambito più centrale della città: tra questi si evidenzia l’esiste parcheggio Carmini” Palese infatti che in quel periodo a Vicenza il tema del parcheggio fosse particolarmente vivo e quindi la scelta di ampliare ricadde sull’area del centro che meglio si potesse adattare ad un intervento rapido e a basso costo. Ma c’è di più, come la stessa delibera ricorda, non essendo l’area in esame soggetta ad alcun vincolo, Elaborato 1- Carta dei Vincoli del PAT - o rientrante all’interno d’invarianti o particolari fragilità, Elaborato 2-3 - Carta delle Invarianti e Carta delle Fragilità ovvero ospitando secondo quanto previsto dall’Elaborato 4 - Carta delle Trasformabilità - attività da trasferire per incompatibilità o opere incongrue, la delibera si può ben dire prenda “due piccioni” con una fava. Da una parte la zona viene sgomberata dalle attrezzatture dell’AIM e dall’altra si offriva alla città un numero di parcheggi mai visto prima in centro storico. Sembrerebbe quindi che il procedimento sia stato seguito in maniera intelligente e sistematica da non ammettere critiche, ma così non è. La variante urbanistica si propone come uno strumento modificativo del Piano Regolatore e per quanto attiene la pianificazione classica, non attuativa, non sussistono particolari problemi. Anzi, se in passato le varianti, in quanto strumenti eccezionali, abbisognavano dell’approvazione da parte della regione ora non è più così. Notevoli criticità sorgono piuttosto quando la variante va ad incidere sulla pianificazione attuativa, come di fatto quella in esame per il PPCS. Chi ha infatti previsto che certe aree dovessero avere una data conformazione aveva “partorito” tale ragionamento in base a complesse valutazioni sistematiche che necessitano di altrettanti elementi valutativi per poter essere modificate. Qui non si tratta cioè di dover motivare una certa decisione, ma piuttosto sistematicizzarla in un sistema di pianificazione attuativo che vedeva quell’area destinata a qualcosa di completamente diverso dal concreto realizzato. La situazione quindi è complessa: da una parte la giurisprudenza è monolitica nel ritenere che il pianificatore non sia obbligato a particolari forme di motivazione, mentre dall’altra la necessità di dare ai piani una certa visione d’insieme con la conseguente impossibilità d’intervenire in variante di un piano esecutivo senza di fatto alterarlo profondamente. Le scelte urbanistiche contenute all’interno del paino regolatore generale e le eventuali varianti: non necessitano di analitica motivazione. Le uniche esigenze che giustificano una più adeguata motivazione degli strumenti urbanistici generali sono state ravvisate: a) nel superamento dei minimi ope legis, b) nella lesione dell’affidamento qualificato del privato c) nella modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa tra fondi non edificati in modo non abusivo. Al di fuori di tali circostanze è sufficiente il rinvio alla relazione di accompagnamento al PRGC, dal quale si possono evincere i criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti dall’impostazione del Piano stesso ( Cons. Stat. Sez. IV, 6 maggio 2003, n.2386, in Foro amm. CDS, 2003, 1547; Riv. Giur. Edilizia, 2003, 83).

In altre parole, si vuole ritenere che la variazione del PRGC mediante la modifica del decaduto PPCS attraverso Piani di Recupero può non assolvere alcun onere motivazionale, nonostante nella motivazione stessa risieda la ratio del cambiamento della pianificazione. Privilegiando tale impostazione i provvedimenti modificativi estemporanei, risultano di ancora maggior “fattibilità” dal momento che a dispetto del PRC, normalmente supportati da ampie fasi di ricerca e confronto sui temi propugnati, le varianti non abbisognano di alcun provvedimento dedicato. Prima di procedere oltre pare necessario ricordare che lo strumento della variante nasce e si sviluppa come naturalmente aggravato da forme di verifica oggi soppresse come riportato al comma 4 dell’art.10 delle 1150/1942: “Le proposte di modifica, di cui al secondo comma, ad eccezione di quelle riguardanti le osservazioni presentate al piano, sono comunicate al Comune, il quale entro novanta giorni adotta le proprie controdeduzioni con deliberazione del Consiglio comunale, che previa pubblicazione nel primo giorno festivo, è trasmessa al Ministero dei lavori pubblici nei successivi quindici giorni”. Per forza di cose venendo meno uno strumento seppur formale di controllo sovraordinato i comuni poterono promuovere, dalla formazione del piano in poi, una serie alluvionale di varianti che di fatto valutate nel loro complesso vanno a snaturare il progetto di piano nella sua complessità e quindi vanno per forza di cose a scontrarsi con la previsione del comma 1 dell’art. 10, ovvero: “ ...e modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, tali cioè da mutare le caratteristiche essenziali del piano stesso ed i criteri di impostazione...”. Il risultato finale è ciò che conta; qui è indubbio che le differenze generali d’impostazione che possiamo notare della realtà empirica rispetto alla pianificazione contenuta nel PPCS siano dovute sostanzialmente a due aspetti: il primo inerente alla impossibilità di procedere alla realizzazione di certi progetti complessi a causa del ridimensionamento della finanza pubblica, il secondo relativo all’abuso dello strumento della variante con i risultato finale di un piano sottoposto alla tortura della goccia d’acqua - variante dopo variante, per decenni - fino alla morte del piano. Chiaro è quindi che l’estemporaneità dello strumento della variante, oggi per forza di cose, sempre meno utilizzato, abbia portato a una degenerazione dello strumento sovraordinato che necessita oggi più che mai di una nuova re-invenzione, basata sui concetti non più delegabili e “rinunciabili” della riqualificazione e rigenerazione urbana. 14 Secondo le dicerie, sarebbe un metodo di tortura che consiste nell'immobilizzare il malcapitato e fargli cadere sulla fronte, sempre nello stesso punto, una goccia d'acqua ad intervalli regolari. Alla lunga questo porterebbe alla follia e poi alla morte perché la goccia finirebbe per forare il cranio del malcapitato. Dopo tutto non si dice che una piccola goccia alla fine buca una resistente roccia? La tortura della goccia cinese è stata amatissima dagli scrittori d'avventura, chiunque abbia letto Salgari e il suo ciclo malese non può non averne un vivido ricordo, tuttavia ogni tanto viene annoverata tra i reali metodi di tortura usati nel sud est asiatico, anche in tempo recenti.

Si badi bene, da ultimo, che in questo caso specifico il Piano di Recupero è stato eletto a esempio di variante urbanistica nonostante il suo scarso utilizzo nella prassi, in favore di strumenti ancor peggiori come le mere varianti funzionali alla realizzazione di vaste aree soggette a convenzioni di lottizzazione.

Riqualificazione e rigenerazione urbana - il necessario sguardo d’insieme - la legge 14/2017 e 14/2019 Se guardiamo oggi i piani redatti dalla fine degli anni ’40 ai primi anni ’70 possiamo notare come uno Stato presente in economia e deus ex machina dei grandi mutamenti urbanistici delle città fosse un’idea sostanzialmente irrinunciabile. Da questa idea, che ha origini sociali, ma che per forza di cose si riflette sul tema economico e politico, scaturisce una pianificazione TOP-DOWN dove il ruolo dei privati si limita a quello di mero “esecutore” per quanto di sua spettanza, del contenuto pianificatorio. Con ciò non si vuole intendere che il privato non abbia avuto la possibilità d’intervenire facilmente in pianificazioni di area vasta, visto il sempre più utilizzato strumento della lottizzazione, ma che questi interventi siano a ben vedere degli strumenti che si pongono sempre a “valle” delle prescrizioni urbanistiche. Dal 1978, un anno prima dell’approvazione del piano Coppa, ovvero con la nascita dei programmi di recupero, fa capolino nella nostra legislazione quella che larga parte della dottrina definisce oggi “urbanistica consensuale”, andandosi di fatto a proporre come uno strumento, che nella sua accezione “d’iniziativa privata” comporta una seppur blanda introduzione all’interno del nostro sistema giuridico dell’accezione di strumenti “a monte” delle prescrizioni urbanistiche. Certo, non vi è dubbio alcuno che i piani di recupero siano le cenerentole della nostra pianificazione e che gli stessi siano stati per decenni quasi totalmente non considerati nel panorama italiano, ma chiaramente le cose stanno cambiano e oggi sempre di più è viva la necessità di procedere con progetti di riqualificazione di area ampia che ovviamente possono trovare nei piani di recupero delle ottime sponde. Tutto questo deve essere messo in relazione con la nuova geografia normativa regionale e in particolare con la legge 14 del 2017. In relazione a quanto detto si ricorda in dottrina il fondamentale lavoro del prof. P. URBANI, in particolare: Urbanistica consensuale - la disciplina degli usi del territorio tra liberalizzazione, programmazione negoziata e tutele differenziate, Bollati Boringhieri 2000 e Urbanistica solidale – alla ricerca della giustizia perequativa tra proprietà̀ e interessi pubblici, Torino, Bollati Boringhieri 2011. Sul tema anche S. MORO, Gli accordi “a monte” delle prescrizioni urbanistiche: spunti di riflessione, Rivista Giuridica di Urbanistica, nr. 3-4/2010, Maggioli, p. 453-490, consultabile presso il seguente link: “HTTPS://VENETOIUS.MYBLOG.IT/MEDIA/02/00/559750298.PDF

Di particolare interesse risulta l’art. 6, comma 1, che prescrive quanto segue: “ il piano degli interventi (PI) individua il perimetro degli ambiti urbani degradati16 da assoggettare ad interventi di riqualificazione urbana e li disciplina in una apposita scheda, precisando: i fattori di degrado, gli obiettivi generali e quelli specifici della riqualificazione, i limiti di flessibilità rispetto ai parametri urbanistico-edilizi della zona, le eventuali destinazioni d’uso incompatibili e le eventuali ulteriori misure di tutela e compensative, anche al fine di garantire l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico nella trasformazione del territorio.” Chiaro è quindi che la legge prevede la necessità che i comuni operino un’individuazione precisa degli ambienti urbani degradati, prodromica a una generale riqualificazione del tessuto urbano. L’art. 6, comma 4, prevede che “...gli interventi di riqualificazione urbana possono essere attuati mediante: a) piani urbanistici attuativi, ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 b) comparti, ai sensi dell’articolo 21 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 c) permessi di costruire convenzionati, ai sensi dell’articolo 28 bis del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”. Appare quindi evidente che quando il legislatore dice PUA, faccia rientrare tra i modelli attuativi anche il piano di recupero, d’iniziativa pubblica o privata. Come si attua in concreto la delimitazione delle aree da recuperare? “...Sulla base dei criteri e degli obiettivi di recupero indicati dalla Giunta regionale ai sensi dell’articolo 4, comma 2, lettera b): a) il piano di assetto del territorio (PAT) individua gli ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile; b) il piano degli interventi (PI), con apposita scheda, individua il perimetro dell’ambito assoggettato a un programma di rigenerazione urbana sostenibile dando gli indirizzi per la sua attuazione, ivi comprese le modalità di trasferimento di eventuali attività improprie, le destinazioni d’uso incompatibili e le misure necessarie a garantire il raggiungimento degli obiettivi di rigenerazione.” Per un approfondimento sul tema degli ambiti urbani degradati si richiama a Commentario della legge regionale veneta 14/2017, in particolare E. Ganz : ”La disposizione esordisce mettendo a fuoco la stretta corrispondenza biunivoca tra degrado e riqualificazione. Nel disegno della legge, infatti, il degrado costituisce la condizione imprescindibile per accedere alle premialità della riqualificazione e la riqualificazione integra la modalità di contrasto tipico al degrado” Tale riflessione assume una rilevanza decisiva con riguardo alla necessaria individuazione delle aree degradate. Si vuole per altro ricordare la definizione contenuta nel medesimo commentario: “Qui il legislatore ha inteso introdurre la definizione delle aree che, ricadenti all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidati, sono assoggettabili alla riqualificazione urbana di cui all’art. 6. Si è in presenza di un ambito degradato se ricorre almeno una delle ipotesi di degrado previste dalla norma, ovvero: – degrado edilizio – degrado urbanistico – degrado socio-economico – degrado ambientale. Anche qui si tratta di valutazioni che i diversi enti competenti devono svolgere usufruendo di un’ampia discrezionalità amministrativa che, come già ricordato, non deve sfociare nell’irragionevolezza o nell’ingiustizia manifesta. Un elemento a favore di una valutazione “ponderata” potrebbe derivare dalla definizione di “qualità architettonica” contenuta nell’art. 9, co. 1 della legge, che fornisce vari parametri di riferimento. Sul concetto di degrado evidenziamo che l’art. 5, co. 9 della L. 12.07.2011 n. 106, di conversione in legge del Decreto Legge 13 maggio 2011 n. 70 (c.d. Decreto Sviluppo), aveva già attribuito alle Regioni il compito di approvare specifici testi normativi “Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare”. Questa norma statale, però, non conteneva le definizioni delle varie tipologie di degrado. A livello procedimentale, l’art. 15 attribuisce alla Giunta regionale il compito di redigere la ricognizione degli ambiti urbani degradati, come individuati dai singoli Comuni ai sensi dell’art. 6.” Non si può negare quindi che siano stati fatti dei tentativi, ma ad oggi non risulta esistere alcuna disposizione pianificatoria con il contenuto unico d’individuare le singole aree ex art. 7 che intervenga sia sul PAT che sul PI, ma che conservi rispetto a loro un rapporto di specie-genus. Tale manchevolezza si mostra in tutta la sua portata logica quando, nel suo perdurare, impedisce la formazione degli strumenti di rigenerazione urbana tra i quali la stessa legge regionale ascrive i programmi di rigenerazione urbana sostenibile. Si tratta chiaramente di un ritardo che, presa in considerazione la gravità e vastità del fenomeno del degrado urbano, assume delle evidenti tinte problematiche. In particolare, ad adiuvandum, si vuole anche ricordare il concetto di manufatto incongruo, ovvero le opere incongrue o gli elementi di degrado di cui alla lettera f), del comma1, dell’articolo 2, della legge regionale 6 giugno 2017, n. 14 “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo e modifiche della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio””, individuati, anche su istanza di soggetti privati e dallo strumento urbanistico comunale. Tale osservazione assume un’ importanza decisiva in tema di rigenerazione urbana, perché ricollegata all’art 4 della legge 14/2019 in tema di crediti edilizi da rinaturalizzazione e in particolare con riguardo alla delibera prevista dal comma 2: “ Entro dodici mesi dall’adozione del provvedimento della Giunta regionale di cui al comma 1, e successivamente con cadenza annuale, i comuni approvano, con la procedura di cui ai commi da 2 a 6 dell’articolo 18, della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 oppure, per i comuni non dotati di piani di assetto del territorio (PAT), con la procedura di cui ai commi 6, 7 e 8, dell’articolo 50, della legge regionale 27 giugno 1985, n. 61 “Norme per l’assetto e l’uso del territorio”, una variante al proprio strumento urbanistico finalizzata: a) all’individuazione dei manufatti incongrui la cui demolizione sia di interesse pubblico, tenendo in considerazione il valore derivante alla comunità e al paesaggio dall’eliminazione dell’elemento detrattore, e attribuendo crediti edilizi da rinaturalizzazione sulla base dei seguenti parametri: 1) localizzazione, consistenza volumetrica o di superficie e destinazione d’uso del manufatto esistente; 2) costi di demolizione e di eventuale bonifica, nonché di rinaturalizzazione; 3) differenziazione del credito in funzione delle specifiche destinazioni d’uso e delle tipologie di aree o zone di successivo utilizzo;” In questo senso si vuole sottolineare che la Giunta è intervenuta con il D.G.R. Veneto n. 263 del 2020, il BUR V. 10/03/2020, n. 30, secondo quanto previsto dal comma 1 dell’art. 4 in relazione a quanto sopra e che quindi i comuni avranno come limite temporale per l’emissione del provvedimento di cui sopra, come al comma 2, fino al 10/03/2021.20 In particolare, la procedura di delimitazione delle aree incongrue apre ad un’importante stagione di confronto con la cittadinanza dal momento che il comma 4 dell’art. 3: “Ai fini dell’individuazione dei manufatti incongrui di cui alla lettera a), del comma 2, i comuni pubblicano un avviso con il quale invitano gli aventi titolo a presentare, entro i successivi sessanta giorni, la richiesta di classificazione di manufatti incongrui. Alla richiesta va allegata una relazione che identifichi i beni per ubicazione, descrizione catastale e condizione attuale, con la quantificazione del volume o della superficie esistente, lo stato di proprietà secondo i registri immobiliari, nonché eventuali studi di fattibilità di interventi edificatori finalizzati all’utilizzo di crediti edilizi da rinaturalizzazione.” Come se non bastasse la prospettiva appena espressa ad accendere gli animi di chi da decenni si occupa di questi argomenti, il legislatore regionale aveva previsto all’interno della legge 14/2017, in particolare all’art. 10 che: “È istituito un fondo regionale per: a) il rimborso delle spese di progettazione degli interventi previsti nei programmi di rigenerazione urbana sostenibile approvati di cui all’articolo 7; b) il finanziamento delle spese per la redazione di studi di fattibilità urbanistica ed economico-finanziaria di interventi di rigenerazione urbana sostenibile di cui all’articolo 7; c) il finanziamento delle spese per la demolizione delle opere incongrue di cui all’articolo 5, comma 1, lettera a), per le quali il comune, a seguito di proposta dei proprietari, abbia accertato l’interesse pubblico e prioritario alla demolizione. 2. Il fondo è disciplinato dal provvedimento della Giunta regionale previsto all’articolo 4, comma 2, lettera g); al fondo possono accedere enti pubblici, organismi di diritto pubblico ed associazioni, singolarmente o in forma associata, nonché soggetti privati. In particolare, nell’individuazione dei manufatti incongrui, il Comune, non dovrà limitarsi a valutarne la congruenza ai soli parametri urbanistici (quali ad es. la compatibilità con le destinazioni d’uso ammesse dallo strumento urbanistico generale), dovendo invece estendere, l’esame ai valori paesaggistici e/o ambientali propri della zona di riferimento, senza trascurare i profili igienico-sanitari e di sicurezza.

3. La Giunta regionale definisce, sentita la commissione consiliare competente in materia di governo del territorio, i criteri di riparto del fondo.” La giunta regionale è intervenuta con le delibere n.1133 del 31 luglio 2018 e la n.635 del 19 maggio 2020 per la costituzione di un “...fondo regionale per la rigenerazione urbana sostenibile e per la demolizione. Finanziamento di interventi di demolizione di opere incongrue con ripristino del suolo naturale o seminaturale”. Lo scopo del bando è:

  • - Finanziamenti per interventi di demolizione e ripristino del suolo naturale o seminaturale il cui valore stimato sia uguale o superiore a 100.000,00

  • - Finanziamenti per interventi di demolizioni e ripristino del suolo naturale o seminaturale il cui valore stimato sia inferiore a 100.000,00 Evidente quindi che siano stati di fatto stanziati dei fondi, come presentato nell’allegato A al DGR nr.1133 del 31 luglio 2018, a favore di “comuni, gli enti pubblici, gli organismi di diritto pubblico ed associazioni, singolarmente o in forma associata, nonché soggetti privati per interventi per i quali il Comune nel quale territorio è ubicato l’intervento abbia accertato l’interesse pubblico e prioritario alla demolizione.” La necessità che i comuni procedano all’individuazione ex art. 7 è però di fondamentale importanza visto e considerato infatti, che in assenza della stessa, non si può certo parlare di palese accertamento “...dell’interesse pubblico e prioritario alla demolizione”, lasciando di fatto questa prospettiva a delle scelte estemporanee e spesso non contestualizzate. Un nuovo PPCS del centro storico deve coltivare in tutte le sue forme, come un filo rosso nascosto, il riconoscimento delle zone da riqualificare ovvero i manufatti incongrui da abbattere. La loro individuazione assume infatti un’importanza decisiva anche e soprattutto alla luce dei sempre più diffusi strumenti partecipativi, ma anche in considerazione del cambio di rotta operato dal DL n.76 del 2020.

Riqualificazione e rigenerazione urbana nel decreto legislativo 76/2020 - Legge 11 settembre 2020, n. 120 Fin dalle primissime analisi svolte sul decreto si è potuto cogliere in maniera oltremodo agevole che il nuovo DL semplificazioni, al capo II, “semplificazioni e altre misure in materia edilizia e per la ricostruzione pubblica nelle aree colpite da eventi sismici”, operi una decisa retromarcia in tema di pianificazione BOTTOM-UP, privilegiando invece un ritorno ad un coordinamento istituzionale della materia urbanistica. Tale prospettiva si coglie fin dalle prime battute, ovvero dall’art. 10, comma 1, lettera a), modificativo dell’art. 2bis, comma 1 ter, del testo unico 380/2001: “...Nelle zone omogenee A, gli interventi di demolizione e ricostruzione, sono consentite esclusivamente nell’ambito di piani particolareggiati di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatte salve le previsioni degli strumenti di pianificazione urbanistica vigenti” Ovviamente la disposizione deve suonare come una sorta di dichiarazione d’intenti: all’interno dei centri storici gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici si possono fare solo se stabilito all’interno degli strumenti urbanistici comunali quali: piani particolareggiati di recupero e di riqualificazione particolareggiati. Evidente che la norma apre importanti problematiche. La prima riguarda l’inerzia della formazione di strumenti urbanistici generalizzati. La seconda, che potremo identificare come “paragrafo” del primo, attiene piuttosto alla deriva “derogativa” delle pianificazioni di zona. Come visto sopra, se infatti i piani di recupero nascono come braccio esecutivo del PRG, hanno di fatto “imparato” a derogarlo per ragioni principalmente legate ad aspetti di economicità procedimentale. Se infatti si dovesse ogni volta attendere la modifica del PRG per poi poter creare un Piano di Recupero, le procedure di fatto già lunghe e complesse assumerebbero un livello di difficoltà diabolico. In particolare, la previsione del succitato art. 10, ha incontrato in questi ultimi mesi un’aspra critica da parte dell’ordine degli architetti di molte grandi città italiane, che in riferimento a quanto sopra dichiarano “...Avremo dei centri storici congelati nel loro stato attuale: edifici di pregio ed ecomostri posti sullo stesso piano...ecomostri improvvisamente, inaspettatamente ed incredibilmente elevati ad un rango di dignità irreale. Le città italiane verranno ibernate e consegnate al passato. Città che non potranno evolvere ed essere al passo con i tempi, con i servizi in continua evoluzione per i cittadini, mai finora si era arrivati a tanto” Vero è che i centri si “ibernano” quando la pianificazione urbanistica non riesce a rispondere alle necessità dei centri storici e questo è in realtà il nodo fondamentale sia della presente trattazione che della critica di cui sopra. Altra voce contraria Ance-Legambiente: “Invece di semplificare e avviare un grande piano di sostituzione edilizia di rigenerazione di zone degradate dei nostri centri urbani, si stanno riproponendo visioni retrograde e conservatrici che non tengono conto dei reali mutamenti dei bisogni sociali ai quali occorre dare una risposta adeguata, nel rispetto del patrimonio storico-artistico”. Anche in questo caso si fa riferimento alla necessità di “avviare un grande piano di sostituzione edilizia di rigenerazione di zone degradate”. Ciò detto, si comprende con assoluta semplicità che i ritardi pianificatori espressi nello scorso paragrafo uniti a queste nuove disposizioni nazionali, costituiscono un mix letale per i nostri centri storici.

Sempre in questo senso si coglie dunque la necessità di riportare il tema al centro del dibattito pubblico cittadino: pianificare il cambiamento, questo è il futuro che nolente o volente il nuovo quadro normativo nazionale impone. Nei prossimi anni scegliere cosa e come riqualificare, attraverso una pianificazione intelligente, rappresenterà non solo una velleità di centri storici “belli”, ma una questione di vita o di morte per gli stessi. Invero, ciò che esce dalla modifica del Testo Unico dell’Edilizia è di una vera e propria “gabbia”. Se analizziamo infatti la vecchia disposizione dell’art. 2bis-comma 1 ter, primo periodo: “In ogni caso d’intervento di demolizione e ricostruzione, quest'ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell'area di sedime e del volume dell'edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell'altezza massima di quest'ultimo” possiamo notare facilmente la differenza con l’attuale a seguito delle modifiche intervenuto con la legge 120/2020 in particolare con il già citato art. 10 comma 1 lettera a) “In ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici, anche qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini, la ricostruzione è comunque consentita nell’osservanza delle distanze legittimamente preesistenti. Gli incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati anche con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito, sempre nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti”. In questo caso la prospettiva apportata dal legislatore è molto chiara e attiene principalmente il concetto dimensionale, anche e soprattutto alla luce delle vaste e multiformi modalità di premialità volumetrica introdotte in alcune regioni, tra le quali il Veneto. In questo senso si comprende con ancora più evidenzia l’assurdo della norma e la possibile entità discriminatoria della stessa. Mi spiego meglio portando un esempio. Se prendiamo sempre come punto di riferimento la città di Vicenza possiamo notare che effettivamente sia all’interno del centro storico, ovvero della zona omogena A, ma anche fuori, esistono moltissimi immobili che abbisognerebbero d’interventi come quelli descritti all’art. 7 della legge della Regione Veneto 14/2019, art. 7 “Sono consentiti interventi di riqualificazione, sostituzione, rinnovamento e densificazione del patrimonio edilizio esistente, mediante integrale demolizione e ricostruzione degli edifici che necessitano di essere adeguati agli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza, nonché a tutela delle disabilità.” secondo quanto previsto nel già analizzato art.6 della 14/2017. Chiaro che grazie alla nuova legge 120 del 2020, fuori dai centri, sarà possibile realizzare tali interventi anche senza la coincidenza con il vecchio sedime o sagoma. Possiamo quindi certamente affermare che si tratta di una norma fortemente positiva per il settore edilizia, in particolare delle nuove costruzioni. Se invece analizziamo un immobile situato in zona A, pur libero da vincoli vari, la questione cambia. Quella norma, pur riguardando immobili investiti da medesime problematiche e, come spesso e volentieri accade, simili dal punto di vista architettonico, non può essere applicata allo stesso modo in forza della distinzione in aree omogenee stabilita ex art, 2 del DM n.1444 del 1968. Chiaro è che la soluzione a cui si giunge è quindi doppiamente pesante. Da una parte i centri storici, vincolati alla pianificazione, dall’altra le periferie, dove le minori “costrizioni” gettano in definitiva le basi di una nuova espansione edilizia, anche se chiaramente molto dipenderà anche dalle situazioni economiche. Se poi consideriamo l’inerzia dei comuni con riguardo alle previsioni contenute nel comma 6 riguardanti l’identificazione dei manufatti incongrui e degli ambiti urbani degradati, si può capire la complessità della situazione. Tale considerazione deve essere valutata alla luce della forme di premialità contenute nelle leggi regionali, che consentono di agire anche in deroga anche alla pianificazione comunale. I centri storici sono quindi davanti ad un bivio: morire o cambiare!

Il PPCS e la sua rinnovata necessità Tutto ciò premesso pare evidente che il PPCS rappresenti il miglior strumento a disposizione del comune per evitare la morte dei centri delle città, che non si realizza solo nella sua accezione più semplicistica di spopolamento, ma più in generale nella perdita della propria caratteristica di cuore pulsante dell’organismo vitale città. Si ricorda il concetto che Salvatore Settis ha voluto comunicare nel suo libro “Se Venezia muore”, di città come corpo vivente. Una città muore se si spopola di abitanti, ma anche se diventa un centro commerciale a cielo aperto, una vetrina del capitalismo. Non si può nascondere la polvere tirando la coperta troppo corta, bisogna toglierla. Chiaro è che l’unico modo per farlo è costituire una fase di studio importatane che possa cioè fornire gli strumenti per scegliere verso dove concentrare maggiormente i propri sforzi. Tale prospettiva deve però in primis rifiutare con tutte le sue forze il modus operandi più recente basato su interventi parcellizzati, in continua variante agli strumenti urbanistici.

Tutto questo alla luce della serie di aspetti complessi visti in precedenza assume una valenza ancora maggiore. Se infatti, con il DL 76/2020 si da una sferzata all’attività edilizia dei centri storici certo non si può dire che negli anni precedenti, visto il progressivo e sempre più diffuso delle sovraintendenze, l’attività dei centri storici sia stata di certo libera. Possiamo dire che si tratta della punta dell’iceberg di un centro storico sempre più vetrina e meno città. E cosa si fa in una vetrina? Si mette in mostra ciò che di bello si possiede: pulendolo e lustrandolo. Prima di fare cioè è importante capire cosa mettere in esposizione. È necessario cioè stabilire una scala di valori e recuperare ciò che merita di essere restaurato. Il resto si butta! In sostanza il regresso fatto negli ultimi anni è consistito, continuando la metafora, nel mettere in vetrina: cose bellissime - belle ma non curate - cose orribili. In definitiva quindi il ruolo che dovrà avere il PPCS in questa nuova stagione urbanistico-edilizia che è alle porte è quello di fare una selezione, distinguere cioè nella vetrina il ferro vecchio dall’argento ossidato e l’ottone dall’oro impolverato.

Avv. Francesco Poli

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